Giovanni March (Tunisi 1894 – Livorno 1974)
Nota biografica di Giuseppe Argentieri
Mi permetto di riportare in modo molto sintetico una nota biografica del Maestro di pittura quale è stato Giovanni March in particolare per utilità di coloro i quali non hanno avuto, quando era ancora in vita, il piacere di conoscerlo durante qualcuna delle sue apparizioni in quel di Milano ed ascoltare direttamente dalla sua voce la storia della sua vita.
Giovanni March nacque a Tunisi il 2 febbraio 1894 da genitori livornesi che in quella città si erano trasferiti nella speranza di poter trovare una stabilità economica. Il padre di Giovanni, Henry, era un bravo marinaio ed un ottimo bricoleur capace quindi di impegnarsi e di eseguire validamente i lavori più vari. La sorte volle però che Henry decidesse di trasferire la famiglia ad Alessandria d’Egitto ma qui trovò precocemente la morte lasciando la famiglia nell’angoscia ed in gravi difficoltà economiche. Nel 1906 la famiglia March rientrò a Livorno e Giovanni, nonostante la giovanissima età, cominciò a praticare vari mestieri tra i quali il pescatore, il commerciante, il fabbro ed infine l’imbianchino. Fu proprio grazie a questo mestiere che Giovanni ebbe l’opportunità di fare la conoscenza di quei pittori postmacchiaioli, in particolare Ludovico Tommasi, che frequentavano la località di Campolecciano, località amena posta alle spalle di Quercianella. Giovanni sin dal periodo africano aveva usato i colori e si era cimentato nella pittura, fuocherello che era rimasto a covare sotto la cenere e che ritroverà l’ossigeno rigenerante proprio grazie alle sue frequentazioni in Campolecciano presso la pensione gestita da “zio Gigi” dove lavorava anche la signora Amabile, colei che diventò poi sua moglie.
I rapporti con Ludovico Tommasi, Plinio Nomellini, Giovanni Bartolena, Mario Puccini e tanti altri pittori furono, per March, particolarmente utili e stimolanti e sebbene il mondo labronico della pittura guardasse ancora fortemente verso la tradizione fattoriana, March rivolse la propria attenzione verso coloro i quali in quel periodo rappresentavano l’elemento di rottura con la stessa tradizione ed in particolare verso il fauve Mario Puccini ed il divisionista Plinio Nomellini. Ciò non significò per March andare alla ricerca di mode o quant’altro potesse garantirgli guadagni più o meno facili, pur consapevole che la vita dell’artista all’epoca era fatta prevalentemente di sofferenze e privazioni, ma anzi lo indirizzò verso una altrettanto consapevole scelta di ricerca pittorica scevra da tentazioni commerciali, scelta questa che March adottò e rispettò nel corso di tutta la sua vita. Fu certamente la sua bravura, associata alla personale ricerca pittorica, che lo portò all’attenzione di coloro i quali vivevano la pittura e l’arte in genere come fonte di realizzazione della loro vita. Mi riferisco in particolare a Carlo Carrà, a Benvenuto Benvenuti, a Lorenzo Viani, ad Ardengo Soffici, a Galileo Chini, a Gabriele D’Annunzio, Leo Longanesi, Enrico Somarè, Ettore Petrolini e tanti altri artisti e uomini di cultura di levatura internazionale che altri Paesi avrebbero certamente voluto generare. Del resto la fortunata avventura pittorica di Giovanni March iniziò, considerati i tempi, piuttosto presto. A 27 anni si presentò con una personale a Firenze presso la Galleria di Aldo Gonnelli ottenendo un più che lusinghiero successo sia di critica che di pubblico. Molti furono gli artisti, attori primari nella storia dell’arte del Novecento, che testimoniarono la loro presenza depositando le loro firme sui fogli amorevolmente conservati dalla nuora di Giovanni, signora Lorena.
Nel 1923 March tenne una personale presso la Galleria Vinciana. Fu la sua prima personale milanese e fu grazie a questa mostra che la grande critica gli rivolse la propria attenzione. Carlo Carrà scrisse sulle Industrie Illustrate una nota critica sulla pittura di March tanto pregevole in apprezzamenti al punto da indurre il grande divisionista Benvenuto Benvenuti ad indirizzare a sua volta al criticopittore una bella lettera di congratulazioni. È negli anni successivi che maturò in March la necessità di uscire dal sempre più forte provincialismo della cultura livornese e guardare verso la Francia. Si recò a Nizza nel 1928, disse per pochi giorni, e vi restò fino al 1930 facendo la spola tra Nizza e Parigi presentandosi con varie mostre personali. Visse in Francia una esperienza piena, coloristicamente parlando. March abbandonò il segno grafico e divenne, nel tempo, padrone del colore. Si staccò quindi quasi in modo traumatico dalla visione labronica della pittura ancora imperante e che rileggiamo in altri artisti coevi. Una volta rientrato a Livorno, March volle presentare i suoi lavori nel corso di una mostra tenuta a Bottega d’Arte, storica galleria livornese, e poi ripartì per Roma, dove lavorò molto intensamente consolidando così il proprio distacco dalla pittura di tradizione. Con Livorno comunque March ebbe un forte legame ed in questa città ritornò nel 1932 per restarvi fino al 1938 anno in cui si trasferì con la famiglia a Firenze per insegnare presso l’Accademia delle Arti e del Disegno, accanto a Guido Peyron. Il mondo culturale fiorentino lo accolse con amore ed in particolare Mario Borgiotti, Quinto Martini, Baccio Maria Bacci scrissero disinteressate, pregevoli presentazioni delle sue opere. March non fermò il suo pellegrinaggio pittorico a Firenze ma fece numerosissimi viaggi ed altrettanto numerosissime mostre personali. Sue opere infatti furono, apprezzate a Roma, a Parigi, a Napoli, a Firenze, a Livorno, a Pisa, a Rosignano, a Cecina, a Venezia, a Verona, a Pontedera, a Lecce. Visitò e si fece apprezzare a Mosca, a Leningrado, ad Odessa, a Londra ed in Scozia con tappe a Zurigo e Reims. Rientrò definitivamente a Livorno, ove pose la propria residenza, negli anni cinquanta. Una vita intensa, vissuta con spirito gitano, mai mercificato; vissuta interpretando secondo concetti estetici e pittorici, sempre svincolati da facili mode ed emulazioni, i temi della pittura del Novecento.
Una vita lasciata il 30 ottobre 1974 a Livorno.
Mostra a Bottega d’Arte, Livorno marzo 1926
Giovanni March trascorre la sua vita di lavoratore del pennello a Campolecciano, piccolo paese presso Livorno. Cominciò a dipingere un po’ tardi, nel 1916, e la guerra l’ebbe lungamente fra i combattenti in prima linea. Giunto l’armistizio, indi poco dopo la pace, egli, deposto il fucile, riprese lo studio della sua arte con l’acuito desiderio di chi fu costretto per alcuni anni a non fare la sola cosa per la quale si sente essere nato. Noi conoscemmo pure questo dolore e questa gioia. Ritornato alla solitudine del suo lavoro di Campolecciano non fece fatica a rifarsi del tempo perduto e due anni dopo allestiva a Milano alla Galleria La Vinciana una Mostra Personale con un numero assai ragguardevole di opere.
Di questa sua esposizione milanese io ebbi ad occuparmi sulle Industrie Illustrate, o come si diceva allora, sulle tre I. Né era il mio l’elogio convenzionale del critico benevolo, bensì un franco e doveroso riconoscimento delle sue qualità pittoriche, che mi avevano profondamente colpito. Non dimentichiamo che quelli erano gli anni del maggiore smarrimento non soltanto politico, che ebbe a subire lo spirito italiano, e si vedrà subito la ragione che mi mosse a simpatizzare con la pittura di Giovanni March, del quale il giorno prima ignoravo addirittura l’esistenza.
Le mie parole ebbero una certa eco in Toscana. Il mio vecchio amico Benvenuto Benvenuti di Livorno, pittore ed intenditore assai acuto dello scibile artistico, mi scrisse congratulandosi con me, aggiungendo che il March era uno dei pochi giovani su cui gli era lecito poggiare le sue migliori speranze. La cosa mi fece piacere. Prima di tutto perché la lettera dell’amico lontano era la prima che mi giungesse dopo molti anni di assoluto silenzio, poi perché essa veniva a suffragare autorevolmente le mie intuizioni. Ora, che le mie aspettative non fossero mal poste, lo prova meravigliosamente l’esposizione che Giovanni March ha aperto in questi giorni a Livorno nei locali di Bottega d’Arte, in cui il progresso realizzato dal pittore appare a tutti indiscutibile.
La pittura del giovine toscano di cui stiamo frettolosamente tracciando il profilo spirituale, è limpida e serena, libera e spontanea e spesso racchiude un impeto lirico che ci è concesso di gustare raramente nelle molte Esposizioni che meno per innata curiosità che per dovere d’ufficio, andiamo visitando in questo periodo della nostra esistenza. Pertanto il realismo che la sostanzia, se ammette la precisione del motivo, rifiuta l’aneddoto e quella descrizione del particolare che inquina non poca pittura italiana del tempo presente.
Che poi l’indirizzo artistico che Giovanni March persegue con tanto fervore non si stacchi dalla Scuola macchiaiola che come tutti sanno ebbe in Giovanni Fattori, nell’Abbati, nel Sernesi, nel Lega e nel Signorini i suoi maggiori esponenti la cosa non ci deve sorprendere, ne ci deve vietare di gustare la pittura del giovane livornese. Anzi è bene che i giovani si riattacchino ai maestri (quando ce ne sono) della propria provincia, anziché buttarsi, come spesso fanno, a capofitto sugli esemplari stranieri. I quali esemplari, anche quando contengono le maggiori virtù, difficilmente possono guidare un giovine desideroso di ben operare nell’arte.
Meglio servono i grandi artisti stranieri quando chi li osserva ha superato il periodo dell’innocente entusiasmo. Quante vittime infatti del cezanismo e dell’impressionismo francese si potrebbero contare in Italia. Io preferisco dunque che i giovani italiani studino con passione i maestri italiani antichi o moderni che sieno.
Orbene, ritornando al nostro pittore, aggiungeremo che se egli è piacevole di tavolozza, nessuna traccia di bravura si sorprende nei suoi dipinti, nessuna virtuosità di pennello conturba le sue visioni. Che poi la meta a cui può giungere il suo talento plastico, non sia ancora raggiunta totalmente questo è più che naturale, trattandosi di un uomo ben lontano dalla maturità. Del resto non è questa l’epoca dei fanciulli prodigi, almeno per quel che riguarda la pittura, arte quanto mai difficile e lunga a studiarsi. Quello che conta è che in Giovanni March vi sia un pittore di razza, un istinto un temperamento suscettibili dei maggiori sviluppi.
Si dirà: Ma voi parlate di un caso artistico singolare e poi ci venite a dire che il vostro pittore non ha ancora raggiunto in pieno la sua personalità. Ebbene che significa ciò? Deve il critico parlare soltanto degli artisti che hanno compiuto il massimo della parabola, o non deve piuttosto egli segnalare le forze che vanno delineandosi? L’uno e l’altro è il compito del critico. Fermarsi ai primi, significa necessariamente limitare la propria azione ad un ufficio di storico dell’arte. Parlare dei giovani è rischioso, d’accordo; ma appunto per ciò è doppiamente laudabile la missione del critico.
Non v’è dubbio che i giovani artisti son quelli che più incontrano ostacoli nel loro cammino e che soltanto una critica magramente umana e chiaroveggente può trascurare e abbandonare al loro destino. Io amo i giovani quando non sono dei feroci arrivisti e li incoraggio come meglio mi è dato di poter fare. Specialmente i meno fortunati spesso sono i più degni muovono la mia simpatia. E ciò non per romanticismo, umanitarismo e consimili cose, ma per quello spirito di giustizia che è il retaggio più prezioso dei civili.
Abbiamo voluto intrattenere i lettori nostri su Giovanni March cogliendo l’occasione della sua attuale Mostra Livornese, sia perché la sua attività ci è sembrata meritevole di essere discussa pubblicamente in una forma anche più eloquente delle precedenti, sia perché volevamo distinguere l’uomo dalla caterva dei procaccianti, che forse mai quanto in quest’epoca abbondarono e intorbidarono le acque dell’Arte.
Chi lavora con sincerità d’intenti, chi cerca di non vendere fumo, chi s’affatica a dare credito e decoro all’arte italiana odierna, deve trovare nel pubblico quell’appoggio che all’estero si è usi a concedere senza avarizia.
Carlo Carrà
Per March – Mostra Antologica Casa di Dante, Firenze, novembre 1967
Quando ci si trova a scrivere, o anche semplicemente a parlare, di Giovanni March, è difficile sottrarsi alla tentazione di dare la precedenza, sul pittore, al personaggio: tanti sono la simpatia e il fascino che promanano da questo artista livornese (anche se nato a Tunisi), che dei suoi conterranei ha tutta la generosità e la schiettezza non disgiunte da un certo umore beffardo e scanzonato, mentre artista egli è al cento per cento, sia per la inesauribile felicità e freschezza dell’ispirazione, sia per la mirabile coerenza del suo operare, rivelantesi nella ricerca continua, nel progressivo approfondimento dei propri mezzi espressivi che tuttora il March persegue con giovanile vigore non privo di intimi e nobilissimi, tormenti e travagli. Ma a far tutt’uno del pittore col personaggio si corre il rischio di diminuire il primo, assimilandolo alla schiera ancor numerosa dei postmacchiaioli labronici dal pennello facile quanto la barzelletta o il sapido commento: tipi con i quali sarebbe gravissimo errore confondere Giovanni March, che se è un incantevole narratore di aneddoti della sua città e se ha sempre la battuta pronta e pepata, come pittore è tutt’altro che facile o meglio, è solo apparentemente facile soprattutto perché è nutrito di una vasta, ben selezionata ed ardua cultura. Come infatti hanno, del resto assai agevolmente, riconosciuto i molti critici che si sono interessati alla sua opera, nella vicenda pittorica del March la più pura tradizione, toscana di Giovanni Fattori è venuta ad amalgamarsi con l’impressionismo francese e con la severa lezione di Cézanne, dal Nostro appassionatamente studiati durante due anni, dal 1928 al 1930, in cui questi soggiornò a Parigi e che furono decisivi per gli ulteriori sviluppi della sua pittura. Accostamenti difficili, che potevano dar luogo ad un ibrido eclettismo di sapore inattuale, ma che il March invece è riuscito a dominare in grazia non soltanto del suo naturale e prepotente istinto creativo, ma anche di una acuta e rigorosa consapevolezza critica, di una lucidità di visione veramente eccezionale. Ne è conseguita una pittura personalissima, dove la saldezza della costruzione formale si identifica con la smaltata purezza e la intensità luminosa del colore: una pittura che ha fatto giustamente scrivere da un autorevole critico che, essendo essa assolutamente indipendente, March potrebbe dire come il re di Francia: lo stato sono io!.
Alla base di questa indipendenza crediamo ci sia soprattutto un profondo magistero disegnativo: il March infatti è un disegnatore profondissimo, che sa penetrare l’intima struttura delle cose che lo interessano siano esse figure umane, animali, o anche paesaggi e la rende con eccezionale immediatezza nella duttile e sempre incisiva varietà dei suoi mezzi grafici. Dietro ogni quadro del March si avverte l’organico articolarsi di una trama compositiva che procede ed è guidata dalle facoltà di analisi, e al tempo stesso di sintesi, di una mano espertamente e sicuramente disegnatrice: questo anche se in molti suoi dipinti ogni residuo grafico appar riassorbito da un linguaggio puramente cromatico, anche in quei paesaggi urbani o marini che sembrano costruiti di semplici placche di sole e di ombra, così come l’evidenza plastica delle nature morte, dei nudi e dei ritratti scaturisce dal sapiente accostamento di larghe e dense pennellate di vivido e integro colore. In questo senso, la pittura del March può dirsi veramente classica: permeata cioè di quel classicismo che è innanzi tutto una manifestazione di rara probità morale e che, per fondarsi su un temperamento singolarmente alacre, cordiale e fecondo, ha in sé una capacità di rinnovamento tale da resistere alle effimere mode e da mantenersi di conseguenza sul piano di una sempre fervida attualità.
Enzo Carli
Giovanni March: un Pittore Autentico Retrospettiva del Centenario della Nascita
Livorno 1994 – a cura di Giuseppe Argentieri
Giovanni March fu un pittore autentico. Pareva che gli anni, anziché stancarlo, lo ingigantissero pittoricamente, quasi che gli anni, andandosene, portassero con loro ogni residuo accademico, depurassero contenuti e scandissero toni e segni nuovi, timbri sempre più essenziali. Diceva giustamente Carrà, nei lontani anni venti, che March era guidato da un concetto semplice e sodo, quello del far pittura secondo una precisa misura che lui aveva acquisito in terra livornese e dalle successive esperienze francesi, arricchite da una ispirazione istintiva e immediata che nasceva dal suo costante e gioioso rapporto con la realtà e con la vita. E dietro c’era il ricordo di Tunisi (dove era nato da genitori livornesi nel 1894) e di Alessandria d’Egitto dove era vissuto col padre che era uomo di mare e maestro veliero. Dei mercati arabi gli era rimasto dentro un barbaglio di uomini, di colori, la promiscuità, la gente, che egli arrivato a Livorno confrontò con i colori degli amici pittori, soprattutto con Ludovico Tommasi e con Mario Puccini, che morirà nel ’20.
Era autodidatta, ricco solo di una profonda forza di osservazione e di un rigoroso controllo coloristico. Pittore di felicità, di letizia, con un temperamento fascinoso che si traduceva carnalmente in pittura, guardava da lontano le cose con l’occhio sinistro semichiuso per tentarne mentalmente il colore possibile, dicendo spesso a voce alta quello più giusto, quello che avrebbe poi usato per dipingerle. Bisogna essergli stati vicini anni e anni per capire il personaggio, il suo modo di guardare il mondo, ascoltare i suoi giudizi sugli amici macchiaioli di cui elogiava una cosa: l’aver inventato il modo per ridurre le forme a colore, a cui egli diceva di aver aggiunto la lezione francese della luce.
March fu uno dei primissimi pittori (con Viviani e Pizzarello) con cui ebbi dimestichezza e amicizia nell’immediato dopoguerra. Fu un’amicizia lunga e magnifica. Alla trattoria dell’Antico Moro ricordano ancora le nostre serate quando, usciti i clienti e chiuso il locale, March seguitava per ore a raccontare antiche storie ai pochi amici rimasti e ai cuochi o a polemizzare sulla pittura e sul mondo, fino a quando non stendeva un tovagliolo sul tavolo e faceva a qualcuno l’ennesimo ritratto.
Certamente March fu uno dei pittori meno livornesi, nel senso che non ebbe mai remore nell’abbandonare con discrezione stilemi tipici della Scuola Labronica che pur gli furono cari: a parte l’entusiasmo e la festosità, tipicamente livornesi, egli ritornava libero e anarchico davanti al cavalletto anche se le tematiche contenutistiche rimanevano toscane. Ciò che era tipico in lui era il tentativo costante di realizzare soluzioni coloristiche che andassero un po’ sopra le righe, anche per rifiutare intenzionalmente impianti popolareschi cari ad altri pittori del suo tempo e della sua città. Era un pittore raffinato, amante delle pennellate ampie e spesse che arricchivano di luce nuova e di spessore volumetrico anche una barca o una bottiglia tradizionale. Aveva superato il gergo di chi amava la realtà per amore dell’aneddoto ed aveva acquisito un suo spazio riservato nel grande gruppo dei suoi cordiali colleghi e ammiratori.
Sicuramente il Nomellini e il Tommasi gli erano stati maestri di visione, ma a questa lezione egli aveva aggiunto la conoscenza diretta dei modelli francesi, fino ai Fauves, non rimanendo neppure estraneo anche se per rifiutarle alle nuove tensioni delle Avanguardie Storiche. March ne resterà indenne proprio per una giovanile fedeltà al racconto appreso dagli amici toscani, per l’amore nel colloquiare con gli strumenti del quotidiano (uno scoglio, un fiasco, una donna) e semmai, in caso di rischio, ricorrerà alla limpidità dei colori puri del suo Cézanne.
Al ritorno da Parigi, infatti, il segno tenderà sempre più a sparire per essere sostituito da comparti nitidi che elimineranno le linee di confine tra colore e colore: una poetica diretta e coerente che va da Libeccio e figure del ’29 a Al bar del ’29-30(?) o a Nello studio del pittore del ’43 o alla Barca bianca del ’65: un itinerario di alta fedeltà a certi valori puri che March prediligeva già prima del viaggio a Parigi e che testimoniano quanto la realtà gli si presentasse sempre per visioni unitarie e compatte dove lo spazio era tutto giocato per creare momenti lirici tesi all’insieme coloristico.
Era come se il racconto proseguisse per frasi principali, mai indulgente verso subordinate inutili o elementi marginali. La pittura rimaneva tonale anche se talvolta ma raramente alla purezza dei toni partecipavano stesure preparatorie di contrappunti chiaroscurali. March puntava al sodo.
Con gli anni i timbri lieviteranno in tenerezze inaspettate e certe nature morte, liquide e silenziose, sfioriranno indugi metafisici. Le tele appariranno sempre più sospese ad un amore struggente per le cose destinate a perdersi, quasi per allungare il poco tempo a disposizione. Il racconto di quest’ultimo periodo sarà velato di ulteriore malinconia come quella che turberà le sue ultime visioni marine, una assorta meditazione personale sul mistero incombente, una tenerezza contro la quale spesso si ribellava con forza, all’improvviso, con quel suo carattere gioioso e cordiale, quasi per nascondere i crucci e le cattiverie.
Ormai negli ultimi anni sembrava più ricco di una interiore armonia, di una serenità aperta e generosa, rarefatta e disincantata, quella che trasmetteva agli amici e alle sue donne, proprio quelle che in quel giorno di vento giunsero tutte, una dietro l’altra, vestite di nero, in quell’obitorio, per l’ultimo saluto. Dipingere, amare, guardare, furono un modo unico per donare se stesso a chi apriva con lui un rapporto di umanità. E anche un modo per consegnarci una pittura indimenticabile.
Dino Carlesi, 1994
Pane al pane e vino al vino (Piero Bargellini)
Guai all’uomo solo, ammonisce la Bibbia. E guai all’artista solo si potrebbe parafra- sare. Nonostante la loro personalità, anzi nonostante il loro personalismo, per non dire addirittura il loro individualismo, anche gli artisti sono uomini e quindi animali sociali, che han sempre ricercato una certa forma di convivenza.
Dalle Corporazioni trecentesche alle Compagnie cinquecentesche, dal Brieve dei pittori senesi allo statuto dei Paiolanti fiorentini, dalla Accademia di San Luca alla Società Artistica, tutti i secoli han veduto gli artisti riunirsi ed associarsi. Anche i più ribelli ed apparentemente più asociali sentirono il bisogno di fare comunella e di formare gruppo, dagl’Impressionisti agli Scapigliati, dai Macchiaioli ai Chiaristi. Negate le Accademie si formavano le Scuole, da quella di Barbizon a quella di Resina, né mancarono i Manifesti da quello Futurista del Marinetti a quello “Blanco” del Fontana.
Disertati (apparentemente) i Musei, vennero frequentati i Caffè, da quello Michelangiolo a quello delle Giubbe Rosse, da quello dell’Ussero di Pisa, a quello Bardi di Livorno, e Borri dei Macchiaioli a Pistoia, oggi al Globo.
In ogni paese e in ogni momento anche gli artisti si ricercarono per affinità, si riunirono per necessità, formavano gruppo, per non dire comunella.
E un nuovo Gruppo è sorto nei nostri giorni, denominato “Toscana Arte”, di artisti i quali non han voluto issare un nuovo vessillo, proclamando un nuovo credo estetico. Si sono soltanto riconosciuti sotto il cielo della Toscana, che in fatto di arte non è una regione e neppure un continente, ma un mondo intero.
Sotto la denominazione Toscana essi han voluto garantire una genuinità di prodotti, simili a quelli che si ottengono dalla vite e dall’olivo. Non sono apprezzati intrugli teorici o sofisticazioni dottrinali.
Pane al pane e vino al vino. Potrebbe essere questo il motto degli artisti raggruppati nella “Toscana Arte”. Ma perché la formula non sembri addirittura utilitaria, viene riconosciuta da questi artisti toscani anche la legittimità del cipresso, pianta di pura e quasi metafisica bellezza, solenne presenza nel paesaggio anche più modesto, emblema e suggello d’una poesia di sublime disinteresse.
Ed è proprio in virtù di questa insopprimibile poesia che l’arte toscana ha sempre superato il provincialismo e il regionalismo, per toccare le sfere dell’universale.
Firenze 1971